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L’enfer

Pubblicato il 16 giugno 2006 da Alessandro Izzi


L'enfer

Per Sartre l’inferno è l’altro, lo sguardo nel quale ci vediamo riflessi, l’eterno estraneo sempre pronto a giudicare le nostre azioni e a farci percepire il peso ineludibile della nostra colpa e del dolore che ne consegue.
Kieslowski, nel realizzare insieme al suo fido sceneggiatore una trilogia dedicata a inferno, purgatorio e paradiso, sembrava avere intenzione di andare oltre la visione pur pessimistica del filosofo francese. Per il regista polacco l’Inferno è il luogo dell’impossibilità dei rapporti interpersonali è l’incapacità di dare e ricevere amore, è l’incomprensione che scaturisce dal non detto e dal non fatto. L’Inferno non è, quindi, un luogo metaforico o una realtà ultraterrena. L’Inferno è qui. E’ ora.
Soprattutto l’Inferno è il luogo del nostro egoismo, della nostra gretta volontà a preservare le nostre esistenze ricacciando e ripudiando tutto ciò che troppo ci obbligherebbe a fare i conti con l’altro da noi. E’ il chiuderci ostinatamente gli occhi di fronte ai fantasmi del nostro passato e del nostro presente. E’ il rifiuto di scendere a compromessi con le esigenze, i bisogni e i desideri di quanti ci stanno intorno. E’ la volontà di allontanare chiunque cerchi nelle nostre esistenze il calore di un nido. Come nella memorabile scena iniziale della pellicola di Tanovic in cui vengono sospinte da un nido le uova non schiuse, i piccoli ancora non pronti per lasciare spazio solo al più forte e più pronto ad affrontare la tormenta del vivere: la legge della natura che fin dall’inizio trionfa sulla pietà e sulla compassione.
L’Inferno è, quindi, già implicito nel seno dell’istituzione familiare (non solo quella umana e sociale). Esso trionfa proprio laddove meno ce lo aspetteremo. E’ nel rapporto tra fratelli e sorelle che sembrano incapaci a riconoscere cambiamenti o crescita se non attraverso lacerazioni e dolore. E’ nel rapporto tra genitori e figli che si sfiorano, si odiano, si combattono pur nell’amore che provano o vorrebbero provare l’uno per l’altro.
Come per la trilogia dei colori, Kieslowski aveva uno sguardo cupo sui dolori e le contraddizioni dell’esistere. Con la saggezza che gli derivava da una spassionata frequentazione per il genere umano, l’immenso autore polacco (una delle figure più imprescindibili della nostra storia recente) aveva ben colto il senso segreto dell’impossibilità di condurre le nostre vite verso un ideale di qualsiasi tipo.
Ma Kieslowski aveva imparato, sulla sua pelle, sotto i suoi occhi sempre capaci di trasformare i volti dei suoi attori in imperscrutabili paesaggi dell’anima, l’arte di amare anche le figure più sgradevoli. Per il regista polacco è vitale la capacità di non giudicare, di non sovrappore mai alle sue storie esemplari un metro di paragone che separi, nel cuore delle immagini, ciò che dovremmo chiamare buono da ciò che dovrebbe, invece, essere considerato cattivo.
Nell’accostarsi a questo materiale di partenza Tanovic ha la reverenza del neofita che accosti le labbra ad una santa reliquia (come dargli torto?). Pur toccando temi all’apparenza non del tutto consoni al suo sguardo (ma l’episodio molto bello e al femminile del film collettivo sull’undici settembre, già si avvicinava, per temi e sensibiltà a questa pellicola) il regista si perita di mantenere uno sguardo d’insieme prettamente kieslowskiano.
Ma, e qui sta un merito grande, Tanovic non accetta mai fino in fondo una mera posizione ancillare rispetto all’eccellente sceneggiatura pazientemente ricostruita dagli abozzi del regista polacco. Piuttosto cerca una sintonia utopica tra le sue preoccupazioni metaforiche (quelle che avevano reso grande un film come No man’s land) e lo sguardo siderale di Kieslowski.
Da questa sintesi di idee e di stili viene fuori un film inaspettatamente morbido ed avvolgente, che sembra quasi circondare lo spettatore con le sue volute delicate ed intricate, seducendolo visivamente, ma, al tempo stesso tenendolo fuori da quasi ogni forma di partecipazione emotiva.
Rispetto ad Heaven di Tom Twiker (opera pretenziosa e fredda ricavata dall’ultima sceneggiatura della trilogia kieslowskiana) c’è un notevole passo avanti nel rispetto della lettera viva e del senso ultimo della pagina scritta. Ma Tanovic, che sa muovere la sua macchina da presa con la giusta eleganza e che sa dirigire il suo cast al femminile con la giusta maestria (ma è il giovane Guillaume Canet la vera sorpresa del film), non ha ancora appreso l’arte della "comprensione" e dell’amore per i suoi personaggi del compianto maestro polacco.
Non che sembri estraneo alla materia trattata, non che il film si risolva in uno sterile esercizio di stile (come da più parti è stato, ingiustamente, detto), ma sotto le mani di Kieslowski il film sarebbe stato un ulteriore capitolo di una straordinaria Comedie humaine. Qui abbiamo solo un ottimo film di un regista notevole che aspettiamo, fiduciosi, alla prova del suo prossimo film.

[giugno 2006]

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CAST & CREDITS

(L’enfer); Regia: Denis Tanovic, sceneggiatura: Krzysztof Kiéslowski, Krzysztof Piesiewicz; fotografia: Laurent Dailland; montaggio: Francesca Calvelli; musica: Dusko Segvic; interpreti: Emmanuelle Béart, (Sophie ), Karin Viard (Céline), Marie Gillain (Anne), Carole Bouquet (La madre ), Guillaume Canet (Sébastien), Jacques Perrin (Frédéric), Jacques Gamblin, (Pierre), Jean Rochefort (Louis); produzione: Asap Films, Sintra S.r.l., Man’s Films, Bitters End, France 2 Cinéma, DD Productions, RTL-TVi, Canal+, Ciné Cinémas, Centre National de la Cinématographie, Région Ile-de-France, RAI, Eurimages; distribuzione: 01 distribuzione; origine: Belgio, Francia, Giappone, Italia; durata: 98’


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